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«Io non mi manifesto a tutti: questo mondo di
stolti non conosce me Increato e Imperituro.»
MAHABHARATA (VI, Bhîsma-Parva. -)
Voi non conoscete, certamente, la storia dell'Amante del sole, cosa di cui non vi faccio rimprovero perché io stesso non la saprei se non mi fossi dato cura d'inventarla. Sappiate dunque che molti secoli fa, quando ancora la follia era una cosa sacra fra gli uomini, viveva nel paese di Tracia un giovine figlio di re, che portava il dolce nome di Kauros, e che aveva la capigliatura pallidamente bionda, come oro tenuto lungamente in un sotterraneo profondo. Questo giovine amava tanto la luce che non fu mai possibile farlo abitare in una casa coperta ed egli faceva tutto ciò che gli uomini usano fare tra le mura, nei prati e nei boschi. Il sole era il suo grande ed unico amico: nei giorni brumosi e nubilosi egli giaceva in terra, cogli occhi sperduti, come pensoso di qualche amante fuggita, e all'alba egli spiava il sole sul monte più alto del suo reame, salutandolo all'apparire con danze di gioia.
Il tramonto era per lui il momento più doloroso e più voluttuoso del giorno: sulla collina più aperta egli seguiva cogli occhi l'amato che se n'andava lentamente, trascinandosi dietro, come un indolente imperatore, la sua bella veste di porpora e d'oro. La notte era per lui un continuo sogno dell'alba, e le stelle, così pure e graziose col loro tremore lontano, non riuscivano a farlo sorridere. Una notte egli pensò: perché non potrei seguire il sole? perchè non correre così velocemente che lui, e non perdere un istante il suo sorriso di luce? Vi erano allora, in Tracia, molti saggi, che abitavano nelle foreste e leggevano in grandi libri di pietra. Kauros si recò dal più giovine perché lo aiutasse nel suo desiderio. Un mistero fu celebrato, furon pronunziate possenti parole dinnanzi a un rogo ove ardeva il corpo di un'aquila, e il giovane sentì delle ali invisibili condurlo verso l'alto. All'alba egli cominciò a correre dietro il sole; scorse il giorno comune, ma il sole non tramontò per lui. Egli era lontano dal suo regno e il sole passava sopra le città dei barbari, sopra i mari profondi, sopra le montagne piene di caverne, sopra le terre deserte e sopra i campi di strage.
Kauros, sempre fisso allo splendor dell'amato, non curava nè gli uomini nè le cose, non udiva nè i tumulti delle battaglie nè i gridi delle feste, non vedeva le grandi selve verdi, nè le mandrie dei tori selvaggi. Così egli continuò molti giorni il suo inseguimento, e molte volte cerchiò la terra col soffio del suo desiderio, finchè a poco a poco gli occhi, sempre fissi alla luce, si affievolirono, si stancarono, si spensero: l'amante del sole era divenuto cieco pel troppo amore. Allora egli tornò nel suo regno e si chiuse nella sua casa e sognò ancora del sole, e il suo spirito fu pieno del sole e morì cantando del sole.
Questa breve e profonda storia non mi è stata suggerita da nessuno di quei libri di leggende, che io amo più dei fanciulli, ma soltanto da quel bel romanzo d'avventure spirituali ch'è una storia della filosofia.
I filosofi d'occidente, nel lungo e avventuroso viaggio, da Talete Ionio, amico delle mobili acque, fino a noi, rassomigliano terribilmente al favoloso principe di Tracia. Il sole che li ammalia è il mistero del mondo: tutta la loro vita è un perseguimento di ciò ch'è nascosto e in certuni di loro la fissazione è divenuta così intensa, da renderli ciechi al mistero. Un giorno essi hanno creduto di aver trovato il segreto del mondo e da quel giorno non hanno veduto più nulla.
Quando un uomo crede di possedere la verità, l'unica verità — egli è perduto per sempre. Soltanto chi cerca guarda — e solo chi guarda vede.
Ora contemplando il mondo senza spiarlo traverso le inferriate di un sistema, noi vediamo che ìn esso non c'è mistero. Il mistero è l'ignoto, è una negazione, ciò che non si conosce, che non si concepisce, cioè che non è.
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C'è soltanto il senso del mistero, il desiderio del mistero ed è cosa reale, privilegio di anime sottili, e per loro niente affatto misteriosa. La grande illusione dei filosofi è stata quella dì credere che il mondo avesse un segreto e di non accorgersi che c'è soltanto la volontà di estenderlo e di riprodurlo, arricchendolo di una metafisica, cioè di uno specchio ideale del mondo. Quando Anassimene Mílesio mi dice che il fondo delle cose è l'aria e Hartmann che il principio universale del mondo è l'Inconscio, essi non fanno che prendere un elemento che serve loro più comodamente a raffigurarsi tutti gli altri, e a produrre così una nuova creazione, che viene ad aumentare le cose dell'universo. Ci si dimentica troppo spesso che la filosofia non è soltanto una spiegazione del mondo, ma anche una parte del mondo che ha bisogno di essere spiegata a sua volta.
Ora poichè la filosofia è la più alta e la più profonda delle cose, quella ch'è l'estrema produzione dell'essere estremo, c'è il caso che, spiegandola, ci troviamo nello stesso tempo ad aver spiegato l'universo intero.
L'impresa è così bizzarra che vai la pena tentarla.
Ciò che colpisce di più percorrendo la storia della filosofia è la ricerca costante, ostinata, febbrile dell'unità. Mi dispiace che questo sia un luogo comune, ma è difficile trovare un sofisma che dimostri il contrario. Il grande sogno di ogni filosofo è di scoprire un principio unico, una sorgente primigenia a cui riportare tutte le varie apparenze delle cose. Quelli che si occupano più della natura cercano qualcosa che dia ragione tanto del filo d'erba che cresce quanto della fuga delle stelle, quelli che si volgono allo spirito voglion un fatto primitivo da cui dedurre così l'ansia del desiderio come le esigenze della logica. Questi principi universali, che essi vogliono vedere in ogni luogo, o li cercano, come i greci dei primi tempi, nella natura, e allora vediamo le acque, il fuoco, l'aria che sono considerati a vicenda i generatori dell'universo o son tolti dal mondo delle idee generali e allora vediamo la materia o la forza, l'essere o la sostanza, che prendono il posto de' loro più materiali predecessori, oppure, si ricorre al mondo interno, agli elementi psichici, e la Volontà, l'Immaginazione, l'Odio e l'Amore, l'Inconscio vengono assurti all'onore di reggitori unici e supremi di tutte le cose. Il principio può essere soggetto, sostanziale, come il Dio spinosiano, oppure può essere piuttosto predicativo, dinamico, come il Divenire di Hegel, ma resta sempre unico.
Il dualismo di certi filosofi non fa eccezione alla legge: i sistemi dualisti non son forse anche loro tentativi di una concezione unitaria del mondo, di spiegare il mondo con un solo contrasto, e non ammettono forse, la maggior parte, una fusione finale? Lo stesso è a dirsi dei sistemi pluralistici perché o si guardi all'atomismo epicureo, o all'atomismo spiritualista del Leibniz, o all'atomismo logico dell'Herbart si tratta sempre di una moltitudine di omogenei, di un principio spezzato ma unico.
I positivisti, che vogliono sempre spiegare le cose alte colle basse, dicono, o almeno direbbero, che la ragione di questa tendenza unitaria risiede unicamente in una necessità economica della mente.
Secondo loro ciò ch'è più breve e piú comodo è sempre preferito e trattandosi di spiegare il mondo è molto più semplice e spiccio ridurlo ad un solo principio, che ci serva di filo fedele per raffigurarsi tutto il resto.
Io non credo che ciò basti per giustificare la sete di unità dei filosofi: essi che scorrono la vita per le cose inutili non possono esser mossi da scrupoli di economia.
Qualcosa di più profondo li deve muovere, qualche necessità più intima li deve spingere verso la chimera monistica. Poiché la cosa è tanto più strana in quanto essi debbono andar contro risolutamente all'esperienza continua e universale che ci presenta tutte le cose diverse tra loro. Se essi scendono nel loro spirito, ch'è il loro unico dominio, essi non possono che affermare la successione continua di stati di coscienza, tutti diversi e tutti nuovi. E se pensano alle loro intuizioni primitive si debbon persuadere che per quanti esercizi logici si facciano, non si riesce a persuadersi che una sensazione di suono si può ridurre a una di colore. Quando s'è detto che tutte e due son vibrazioni non si prova nulla: le vibrazioni non sono nè suoni nè colori, son convenzioni conoscitive, concetti generali e niente più. Il reale è l'intuizione e le intuizioni anno irriducibili, cioè antimoniste.
Bisogna dunque risolversi a credere che i pensatori obbediscano a una imposizione segreta ch'è più forte di loro, che non siano che i servi di una tendenza universale ch'essi non posson vincere la volontà dell'Unico.
L'analisi della filosofia riesce dunque a dare un oggetto a quella volontà che non pochi filosofi, dallo Schopenhaner al Wundt, hanno posta a principio del mondo e noi vedremo che la «volontà dì vivere» e la «volontà di potenza» si posson subordinare al desiderio dell'unità.
Ma la nostra ricerca sarebbe vana se questa tendenza si riscontrasse soltanto nella storia del pensiero e non si potesse estendere alla storia delle cose. Una cosmologia che dimostri il «sintetismo» non attuale ma intenzionale del mondo è ancora da fare ma e fattibile. (Cos' è che non si può dimostrare, in filosofia?)
La dottrina più in voga a' tempi nostri, l'evoluzione, colla sua prospettiva d'indefinito differenziamento, sembra contraddire alle nostre vedute. Ma ormai il principio evolutivo non regna più nella sua interezza: senza tener conto delle opposizioni fondamentali, anche di carattere puramente scientifico, che si posson muovere alla fortunata generalizzazione, i più accorti, cominciando dallo Spencer stesso, hanno dovuto ammettere accanto al principio progressivo, un principio regressivo, un'involuzione opposta all'evoluzione e il tentativo acuto e profondo del Lalande di fare della dissoluzione il principio supremo non passerà senza tracce.
Il mondo fisico tende per ora a delle unità parziali: l'affinità chimica che fa di due elementi diversi un solo corpo, avente caratteri nuovi e unici, non è forse il segno di una futura fusione in cui tutti i corpi, combinandosi insieme, potrebbero formarne uno solo? Noi non conosciamo ancora bene tutte le possibilità chimiche per affermare il contrario. Nel dominio biologico, pur servendosi della dottrina evolutiva, noi vediamo limpidamente la tendenza unicista. La formazione di nuove specie più evolute si fà molto spesso a detrimento delle antiche, che debbono scomparire. Così l'uomo, che riassume, in una sintesi animale, il percorso zoologico, ha già distrutto certe specie e tende a distruggerne altre, come certe razze umane superiori tendono a sopprimere le inferiori.
Nel mondo dello spirito la tendenza è ancora più evidente, appunto perchè scoperta in lui. La coscienza è, secondo la bella immagine del James, un fiume, una corrente, e come nel fiume di Eraclito l'acqua non è mai la stessa. Ma il carattere saliente della coscienza attraverso il mutarsi perpetuo del contenuto, è l'unità e non è il più piccolo dei meriti di Kant l'aver messo in luce l'attività sintetica dello spirito. Questo suo carattere fondamentale si riscontra nei suoi prodotti più importanti: nella scienza, in cui domina sovrana la tendenza monistica, colla legge unificatrice dell'equivalenza delle forze e della conservazione dell'energia, senza contare tutte le continue unificazioni logiche fatte per comodo di ordinamento — nell'arte, la cui essenza è l'immagine, la quale tende, coll'avvicinamento delle cose lontane, a scoprire l'ultima unità del mondo — nella religione che ci ha dato nelle sue forme più perfette la concezione d'Iddio, cioè l'idea unitaria per eccellenza, di colui che tutto crea tutto ordina e tutto governa; e, nelle sue forme più interne, i mistici che sognano perdersi nell'unità dell'essere universale, del quale si sentono solo piccole parti.
Nel mondo sociale la tendenza all'unico si manifesta in due forme che sembrano, al primo sguardo, completamente opposte: l'egoismo e l'umanitarismo. Per giungere all'unità gli uomini si dividono in due schiere: la prima quella ch'io chiamerei conquistatrice, cerca di raggiungerla colla sottomissione del non me, e col fare di tutto il mondo una parte dell'io e coll'escludere e sopprimere tutto ciò che si oppone a questa unificazione individuale; l'altra che si potrebbe dire combinatrice, tenta di sostituire all'Unico individuale l'unico sociale, a rendere gli uomini sempre più simili, più legati, più vicini fra loro, onde arrivare all'unità superiore della società, dell'umanità, che rappresenta per molti la sintesi umana più desiderabile.
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Questo contrasto sociale ci serve a scoprire come fra il principio individualista della «Wille zur Macht» e il principio unitario ci sia relazione di dipendenza. Se una delle vie per giungere all'unico è quella di conquistare, d'ingrandirsi, di dominare, il principio nietzschiano, inteso in questo senso, non fa che designare uno dei mezzi di cui la superiore volontà dell'Unico si vale al suo fine. Sì vuole la vita, ma la vita per l'espansione, per l'assorbimento, cioè per l'unità.
O conquista o fusione, guerra o fraternità; ecco i cammini diversi e convergenti della futura unità.
Così questo principio che la storia della filosofia ci ha rivelato, perché in essa, più che in ogni altra cosa del mondo, appare limpidamente, non è un carattere particolare della riflessione o cosmologica o psicologica, ma si può ritrovare, ove si voglia, nel resto dell'universo.
E la cosa non deve far meraviglia: poichè l'universo non è che la creazione del pensiero, il principio fondamentale del pensiero deve adattarsi all'universo. Poichè essere e conoscere sono un'unica e indivisibile cosa, la legge suprema della conoscenza, la sintesi, dev'essere l'ultima parola del mondo.
Sarà l'ultima ma non è l'attuale: il monismo che anticipa per mezzo delle sue manipolazioni verbali l'unità dei fenomeni, s'inganna profondamente. Il mondo presente è un grande scorrere d'eterogenei che aspirano all'omogeneo. Non bisogna scambiare la tendenza colla realtà: il monismo è in volontà non in fatto. In una parola, e per esprimersi più apertamente, il mondo non è Dio, come sostengono i panteisti, ma sta diventandolo. La concezione dell'avvento dell'unico si integra con quella della crescente divinità del mondo. L'unicità, il più grande degli attributi divini, porta con sè gli altri, la potenza, la coscienza universale, l'infinità. Il mondo divien più divino appunto perché più divino si fa l'uomo che giunge alle cime più alte, e sogguarda i più lontani orizzonti, anche se li ricopre la nebbia inquietante della follia.
Ma è tempo ormai che !a filosofia umana chiuda il suo ultimo libro : non prepareremo noi una filosofia divina, ncn apriremo agli spiriti lontani il sentiero del divino?
Gli Dei che gli uomini adorano sotto il sole, gli Dei selvaggi, gli Dei sanguigni, gli Dei rassegnati non sono che gli annunziatori, i precursori, gli apostoli di un Dio più grande di loro — che deve venire, — che verrà.....
Intanto, in noi stessi, noi creiamo il fantasma portentoso di codesto Dio, al quale daremo vita colle nostre parole e co' nostri desideri.
Vi sembra onorevoli leggitori, ch'io vi abbia abbastanza confusi i pensieri per oggi? Non me ne vogliate troppo male e non ve ne occupate troppo. Continuate le vostre faccende quotidiane, così umili, così monotone, così utili - serbate le vostre fedi, cosi piccole, così comode, così usate, e consolatevi dicendo che c'è un pazzo di più, in questo pazzo mondo!
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